Oggi la Basilica di San Bartolomeo, Santuario dei Nuovi Martiri, ricorda Don Andrea Santoro, sacerdote di Roma ucciso in Turchia il 5 febbraio del 2006 dove ha vissuto la sua missione a servizio dei poveri e del dialogo con tutti, soprattutto tra cristiani e musulmani.
Nella cappella del Santuario dedicata ai Martiri dell’Asia e del Medio Oriente sono custoditi il calice e la patena a lui appartenuti.
Don Andrea era in Anatolia dal 2000, prima ad Urfa, l’antica Edessa e poi aTrabzon, l’antica Trebisonda, nel nord-est del paese, sul Mar Nero. La sua missione era quella di occuparsi della parrocchia di Santa Maria con una popolazione cattolica di meno di dieci persone, senza prete da molto tempo. La domenica 5 febbraio del 2006, mentre pregava in ginocchio all’ultimo banco della sua chiesa, fu ucciso con due colpi di pistola alla schiena.
Don Andrea Santoro nasce a Priverno (Latina) il 7 settembre 1945. A metà degli anni Cinquanta si trasferisce a Roma con la famiglia, nel popoloso quartiere del Quadraro. Entrato in seminario nel 1958, vive la sua formazione in una stagione caratterizzata dal Concilio Vaticano II. Ordinato sacerdote dall’allora mons. Ugo Poletti, il 18 ottobre 1970, don Andrea diviene viceparroco alla Trasfigurazione, parrocchia del quartiere di Monteverde. Vi rimane dal 1971 al 1980, durante una intensa stagione di sperimentazione. E’ il periodo del convegno “sui mali di Roma”, e per don Andrea sono anni di battaglie e di approfondimento biblico nella realtà sociale. Nel 1980 il card. Ugo Poletti gli chiede di assumere la guida di una parrocchia, ma don Andrea chiede di prendere un periodo sabbatico da passare in Terra Santa. Tornato a Roma il giovane prete chiede al cardinal Poletti di andare in missione in Oriente, ma il cardinale lo invia, nel settembre 1981, in un quartiere in costruzione sulla Tiburtina (Verderocca) dove farà costruire la chiesa intitolata a Gesù di Nazareth, consacrata nel 1988. Nel 1994 un nuovo periodo sabbatico gli consente di guidare gruppi in Medio Oriente in collaborazione con l’Opera Romana Pellegrinaggi. In seguito i superiori gli affidano la parrocchia dedicata ai santi martiri Fabiano e Venanzio, nel quartiere Appio.
Nel 2000 il Card. Camillo Ruini lo invia come sacerdote fidei donum in Turchia. Don Andrea è al servizio del Vicariato Apostolico dell’Anatolia. La sua prima destinazione è Urfa (l’antica Edessa), città d’antica tradizione, punto di incontro di Cristianesimo, Islam e Ebraismo. Don Santoro intende creare un ponte tra la Chiesa di Roma e le comunità cristiane in Turchia, eredi delle Chiesa dell’Asia Minore. Fonda anche un’associazione, «Finestra per il Medioriente», destinata a coadiuvare la sua missione. Nel 2003 don Andrea viene trasferito a Trabzon, l’antica Trebisonda, nel nord-est del paese, sul Mar Nero per occuparsi di una parrocchia con una popolazione cattolica di meno di dieci persone. A Trabzon don Andrea verifica i disastri seguiti alla caduta del gigante sovietico: la forte emigrazione dai territori dell’ex-URSS in Turchia causata da miseria e disperazione, la misera condizione delle cristiane armene o georgiane costrette alla prostituzione.
In Turchia dopo l’11 settembre don Andrea ha vissuto su un crinale di crisi del mondo in una stagione segnata da cambiamenti profondi. La sua è una vicenda umana che incarna l’esperienza di una generazione di cattolici romani che si è nutrita della Bibbia, ha appreso la lezione del Concilio Vaticano II, ha imparato a guardare all’Oriente come ad una sorgente di rinnovamento della fede.
Nella Prefazione al volume di Augusto D’Angelo, Don Andrea Santoro. Un prete tra Roma e l’Oriente, Andrea Riccardi scrive di lui :Don Andrea fa il prete nel suo piccolo gregge a Trebisonda, pochi cattolici, un po’ di ortodossi dell’Est. Un ecclesiastico ortodosso mi ha detto stupito: ma che ci faceva là per quasi nessuno? La presenza di Santoro in Turchia è l’espressione del genio cattolico per cui il quasi nessuno diventa qualcuno. Lui traccia un modo nuovo di dialogo, che è antico, che è da prete e da cristiano: abitare vicino, essere se stesso, aprirsi agli altri con simpatia, cercare l’umano al di là della gabbia ideologica e psicologica della religione. Non si illude di capovolgere la situazione, ma va avanti passo dopo passo, incontro dopo incontro. Non fa bilanci, raccoglie briciole, si scontra con difficoltà … ma va avanti. Il suo fare mi ricorda un’espressione dell’abbé Monchanin proprio riguardo al dialogo: parlava di ‘pazienza geologica’”.